Il mortale Iron Fist



L'imponderabile è avvenuto nel mezzo di un autunno fin troppo caldo, il 12 ottobre dell'anno del Signore 2018: Netflix ha cancellato una serie Marvel dopo due sole stagioni. In tempi migliori, ovvero da quando Daredevil ha fatto il suo debutto nell'aprile 2015 al momento in cui i meno noti ma rispettabilissimi Jessica Jones e Luke Cage hanno sorpreso col loro, queste collaborazioni della strapotente piattaforma streaming statunitense con Disney/ABC erano state un clamoroso successo di pubblico e critica, una gallina dalle uova d'oro, una rinascita del genere fumettistico in chiave realistica e dark. Un pacchetto di comic book show, insomma, che quasi non avevano l'aria di esserlo e che proprio per questo erano apprezzati da un pubblico esigente e trasversale. Aiutava anche una certa patina di impegno, di diversità: Matt Murdock è cieco, Jessica Jones è una donna il cui intero show gioca sull'allegoria dello stupro e del consenso anticipando il #metoo, Luke Cage è un uomo nero a prova di proiettile ad Harlem.

Ma la serie segata da Netflix non era niente di tutto ciò: era "solo" Iron Fist, la storia del (gasp!) miliardario bianco Danny Rand distribuita con la sua prima stagione nel 2017 tra cori di meritate pernacchie e sguaiate polemiche liberal-radical-chic che non avevano ragione di esistere a meno che non si avesse un certo gusto del ridicolo e un altissimo livello di facilità all'offesa nel sangue. Chiunque non viva sulla luna probabilmente ne ha sentito parlare, ma se siete appena tornati dal pallido satellite terrestre allora dovete sapere che il sugo di tutta la storia era questo: l'Iron Fist è un campione di kung fu, quindi doveva essere asiatico.
Sì, davvero.

In ogni caso, non fosse bastata la barricata dei marciatori della domenica, la prima stagione di Marvel's Iron Fist era uno prodotto goffo dall'aria generalmente cheap, tempi lentissimi e scene di lotta appena una mezza tacca sopra il livello amatoriale. Tutto ciò si andava ad aggiungere a un plot mistico che evocava un drago colpito nel cuore e un mondo tibetano parallelo chiamato K'Un-Lun mai messi in scena per ragioni di budget e perciò ancora più fumosi e implausibili, un contrasto potentissimo e quasi fastidioso con la tangibilità e l'attualità concreta degli show "fratelli". Il risultato è stato una pioggia di recensioni pessime, spietate, molto spesso compiaciute della propria cattiveria e supportate dall'autoreferenziale convinzione di essere dalla parte giusta della lotta per l'inclusione etnica. Iron Fist, si leggeva più o meno ovunque, non era solo razzista, ma anche inguardabile.



Non era del tutto vero, anzi non lo era quasi per niente, ma il punto di questo mio lungo blaterare è un altro: Iron Fist era, nel suo piccolo, un racconto di formazione che meritava di continuare. Lungi dal fungere da portabandiera di tematiche urgenti come disabilità, parità tra i sessi e riscatto razziale, quella di Danny Rand era la storia banale ma anche (o proprio per questo) universale di una maturazione zoppicante, segnata sì da un violento distacco dalle radici (sia per la morte traumatica dei genitori sia per i successivi quindici anni di estenuanti allenamenti in terra straniera) che è un unicum del personaggio ma per il resto febbrile, egocentrica, ostinata e a tratti ottusa come quella di moltissimi ragazzi.

In un mondo di eroi riluttanti e ultratrentenni che rimuginavano di problemi più pesanti del cielo in scene perlopiù notturne, Iron Fist offriva un venticinquenne biondo e ottimista che distribuiva sorrisi  petalosi e perle di saggezza asiatica appuntandosi il proprio potere sul petto con una regolarità che faceva alzare gli occhi al cielo anche ai suoi amici più stretti. Danny era un millennial, un ragazzino in cerca del proprio posto nel mondo, del proprio reale talento, di una famiglia, di affetti, con un mix contraddittorio e letale di ricchezza spropositata, idealismi pauperistici, frustrazioni e speranze.

L'aspetto più importante, però, è che i milioni di difetti di Danny sono realistici e riconoscibili: nessuno dubita per un attimo che Matt Murdock, Jessica Jones e Luke Cage siano eroi. Sì, certo, dal punto di vista diegetico ne dubitano loro, ma noi spettatori? Per l'amor del cielo, si tratta di persone complesse che hanno sofferto e soffrono ancora nella cornice di una New York notturna dalla fotografia sofisticata e dalla colonna sonora seriosa, certo che sono eroi! Non così Danny. Nessuno ne ha stima dentro e fuori dallo schermo: che si sia meritato l'iron fist è messo in dubbio tanto dai suoi amici fraterni quanto dai suoi nemici (che incidentalmente, oltre alla Mano e l'incazzatissimo Davos, includono tutta la critica statunitense e gran parte di twitter e tumblr). Lo stesso copione abbonda di sequenze in cui ogni suo approccio, respiro, azione e profferta vengono derisi, ridicolizzati, rimproverati e rifiutati con una fermezza che rasenta la crudeltà: a volte lui, spavaldo e privilegiato com'è, se lo merita. Molto più spesso, tuttavia, non è questo il caso.

Chiunque abbia tra i venti e i trent'anni e un cuore dovrebbe essere in grado di identificarsi con un ragazzo perduto che vuole solo appartenere a qualcosa, capire quale sia la sua missione, avere radici ben salde e qualcuno che lo ami. Danny ha un fondo fiduciario, e questo potrebbe fare di lui l'odiato 1% del mondo, ma non ha (più) una famiglia, è sospeso tra due culture, è rifiutato dai suoi amici d'infanzia e ha alle calcagna un'associazione criminale internazionale che può sconfiggere solo per mezzo di un'arma che non sa usare.
Una forza che non si sa di avere o come mettere a frutto? Sento odore di metafora, ma forse sono io.


Non è chiaro quanto le feroci critiche abbiano danneggiato il potenziale di Iron Fist. Le comparsate di Danny in The Defenders e Luke Cage sono state ricevute piuttosto favorevolmente e la seconda stagione (al cui timone è arrivato Raven Metzner in sostituzione di Scott Buck) ha fatto del personaggio quasi un reboot che prometteva molto bene in vista di un'eventuale terza uscita. Terza uscita che, abbiamo appreso, non ci sarà mai.

Le logiche in base alle quali Netflix cancella una serie tv sono oscure, ma è ragionevole ritenere si tratti del rapporto tra costi e rendimento: è possibile, cioè, che il lungo, tenace e costante sbeffeggiamento di Iron Fist abbia fatto passare a molta gente la voglia di vederlo, il che a sua volta ha fatto passare a Netflix la voglia di produrlo.

Non sono in molti a piangere l'eroe di K'Un-Lun: online, tra proteste e petizioni che quasi non osavo aspettarmi, ci sono semmai vari commenti sarcastici o carichi di sadica felicità. Personalmente trovo che rinunciare ad Iron Fist renderà il Marvel/Netflixverse più alto, più intellettuale, più caro alla critica, ma per contro sempre più barboso e meno rilevante per il grande pubblico. La verità è che al netto di Daredevil, che pure ha avuto una seconda stagione spesso frustrante, i Difensori di Netflix generano poco interesse al di fuori di settori ben definiti del dibattito pubblico. Iron Fist dal canto suo, con quelle vicende sopra le righe dal tocco di silliness impenitente, abbassava di certo la barra qualitativa ma alzava di non poco quella della godibilità.

Per farla (finalmente) breve: sì, credo che l'universo dei Defenders sia diventato più povero. Credo che Danny Rand assumerà a breve la connotazione di un cugino logorroico e gaffeur che speriamo di non vedere mai, ma se manca da tavola a Pasqua finisce col mancarci. Perché in fondo il suo lato ridicolo ci assomiglia. Perché non tutti siamo individui drammaticamente fotogenici con sulle spalle il peso del mondo. Perché alla fine dei conti il suo vero miracolo non era l'essere un eroe ma il non essere diventato, per sfinimento, un autentico stronzo.


(Le immagini sono di proprietà di Marvel)

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